Eccolo qui.
Anche se avesse un neo sul labbro o fosse più bassa di uno sgabello. Anche se avesse i capelli talmente grassi da rendere dura la vita alle lendini, non m’importerebbe niente.
Sento che è arrivato il momento di andarle incontro.
“Taniaaaaaaa”.
Perché quando mi chiama tiene la “a” lunga come il finale di un quattro quarti andante?
“Arrivo” rispondo sottovoce.
La carta fotografica quando invecchia è bastarda perché perde un po’ di lucido e appiccica gli anni sulla faccia della gente. Mentre stringo la foto fra le dita rivedo la scena di quel giorno, precisa. Ho in mente tutto.
Per il compleanno dei miei diciott’anni si era cenato a casa con gli zii e mia cugina Patrizia. C’erano gli gnocchi al gorgonzola, il primo piatto di tutti i dieci aprile che io ricordi.
“Alzati, c’è da sparecchiare la tavola”. Lei continua a chiamarmi.
“Ho capito, arrivo” dico piano piano.
I miei occhi sono fermi sulla foto di quella cena fatta in casa per festeggiare il mio compleanno.
“Ti vuoi muovereeeeee?”, grida mia madre dalla cucina con un’altra delle sue vocali lunghe.
Quella volta là ero seduta a tavola: davanti la torta con le candeline, dietro c’è mio padre che sorride con gli occhi gonfi di soddisfazione; lei ha la mano sul mio braccio.
“Come siamo belli” sussurro con la foto fra le mani.
“Che dici?” chiede affacciandosi improvvisamente alla mia destra.
Vorrei dirle che era venuta bene in quello scatto, con i capelli corti sembrava più giovane della sua età. Mio padre invece aveva già messo su la pancia del cinquantenne pigro e buongustaio.
“Smettila di guardare quelle fotografie e vieni a passarmi i piatti”.
In questa foto sembriamo una famiglia felice, mia madre ha l’aria di una ragazza. Non ce la faccio a dirle che cerco un’altra lei, anche nei dettagli di quest’immagine sto provando a scovare un particolare che mi porti a un’altra donna, un’altra lei che non si è fatta mai chiamare mamma: nella mia bocca aperta e sorridente, nella pelle chiara come la luce della mattina. Vorrei poterla riconoscere in quell’angolo del viso dove il mio occhio verde disegna una virgoletta.
Ora so che un giorno o l’altro potrei anche incontrarla, forse aspettarla sul binario di una stazione e guardarla mentre scende, incerta, gli scalini di prima classe del Frecciarossa.
“Metti pure la tovaglia nel portabiancheria, anche oggi l’avete sporcata con il sugo”. Mia madre continua a dare indicazioni per rassettare la cucina.
Magari ci assomigliamo per il naso, piccolo e schiacciato. Chissà.
Guardo meglio la foto di quel mio compleanno, uno scatto di sette anni fa. C’era il diciotto rosa infilato nei decori di pasta frolla della crostata al cioccolato.
Penso di dover togliere le figure dietro di me, mamma e papà, con un tocco di Photoshop perché su Faceboook è il viso che conta. Quando avrò postato la mia faccia, incrocerò le dita e aspetterò.
“Perché non me l’hai detto subito, tanti anni fa?” chiedo a mia madre rovesciando le bucce di mele nella pattumiera.
Si vede che il sangue si è incazzato e il suo viso avvampa. Mamma lascia andare un coperchio nella buca del lavello sdraiando i bicchieri come a una partita di bowling.
“Dimmi, perché non subito? Perché non me l’hai detto quand’ero piccola?” insisto.
“Perché non sarebbe cambiato niente. Noi ti vogliamo bene, Tania, questo è quello che conta”. Mamma parla con lo sguardo diretto alle piastrelline verde acqua che ricoprono le pareti della cucina.
Ora sento che è il mio viso a infiammarsi.
“Ma come, c o s a sarebbe cambiato? Tutto sarebbe stato diverso. Possibile che tu non lo capisca?”.
“Ascolta, Tania, ti abbiamo cresciuta con tutto l’amore di cui siamo stati capaci. Cosa ti è mancato, eh? Dimmi, che cosa non ti abbiamo dato?”.
La rabbia acceca più del sole di luglio a mezzogiorno, cava gli occhi e serra le orecchie. La rabbia è narcisista, vuole tutto per sé. S’insinua nella testa e per non farla esplodere ecco la voce che comincia a uscire. Alta, a palla.
Il grido è una forma di autocontrollo per la testa satura di rabbia.
Anch’io comincio a gridare che la mia testa così è al sicuro.
“Tutto sarebbe cambiato. Tutto! La mia vita intera. Avrei dovuto saperlo da te e da tuo marito come stavano le cose”.
Che fa, piange invece di ascoltarmi?
“Voi dovevate dirmi che un giorno siete andati a prendermi e da quel momento per me tutto è cambiato. Come facevo a saperlo io, eh? Dimmelo, come potevo capire che cosa stava succedendo? Venti giorni, un mese? Quanto hai detto che avevo quando siete andati a prendermi?”. Sono a un millimetro dal suo naso, porcocane, scagliata sul suo viso come se volessi infilarmici dentro.
Allento. Indietreggio.
Che fa lei, continua a piangere?
E’ proprio vero che la voce è come uno sfiato. Non sto in pressione come poco fa, sento che qualcosa si è sciolto.
I singhiozzi di mia madre sovrastano il rumore dell’acqua che scende dal rubinetto del lavello. E’ voltata di spalle e mi riesce più facile fare uscire via le parole.
“Domani è il mio compleanno e la legge dice che a venticinque anni un figlio adottivo può chiedere informazioni sui genitori naturali. Questo ho intenzione di fare”.
Fingo di riordinare la frutta nel cesto di legno e sento che lei piange più forte.
Non sopporto l’odore dolce delle mele rosse, mi dà il voltastomaco.
“Sei ingrata e testarda. Che bisogno c’è, Tania? Questa è la tua famiglia”. L’ha detto piano prima di asciugarsi il naso col fazzoletto.
“Da quando l’ho saputo, non ho fatto altro che aspettare di poterla incontrare, ho cercato di osservare tutti i dettagli che avrebbero potuto portarmi da lei. Anche se hai fatto in modo che ne trovassi ben pochi sulla mia strada. Peccato quella dimenticanza, quell’atto di nascita che non mi dà pace. Era nella cartella medica dell’allergologo e lo sapevi che avrei preso in mano quei fogli per la visita di primavera, con questi pollini che mi massacrano il naso. Mi hai tradita anche lì, con quella falsa dimenticanza”.
Lei va a sedersi a tavola come se avesse sentito il mio invito intrappolato nelle troppe intenzioni. Mi metto accanto e di nuovo riprendo in mano la foto del diciottesimo compleanno.
“Mi credi, Tania, se ti dico che non l’ho fatto apposta? Quel foglio non era mai stato nella tua cartellina delle allergie”.
Lessi il documento che avevo diciott’anni appena, ma sette anni fa senza l’aiuto di mamma e papà non potevo fare niente.
Ora il tempo è passato e domani ho l’età per poterci provare da sola.
Aspetto la mezzanotte per postare agli amici di Facebook la mia foto del diciottesimo, scattata poche ore prima di scoprire quella verità: il giorno 10 del mese di aprile del 1990 è nata una bambina a cui viene dato il nome di Tania Defraianni.
Dev’esserci qualcuno nel mondo che può aiutarmi a capire chi c’era con me in quella sala parto dell’ospedale dei Piccoli, a Firenze.
I singhiozzi sul tavolo di cucina si sono smorzati, con la fronte quasi sfiora il tavolo.
“Eri la più piccola, denutrita. Quando ci hanno chiamati eri già stata abbandonata. Sono venuta a prenderti e ti ho portato con me. A casa”.
Sento che è il momento di abbracciarla da dietro, almeno per sussurrarle in un orecchio tutto il bene che sento per lei. Ha le spalle morbide e il profumo della sua pelle apre le narici come l’aria in cima alla montagna.
L’altra donna, l’altra lei, è un mattoncino da rimettere a posto per far stare in piedi tutta la mia esistenza.
Sono pronta con la foto da postare. Facebook è aperto e posso gridare a tutti che da oggi comincio a cercarla.
Condividete, per favore.
Voglio soltanto ringraziarla e finalmente sapere che anch’io sono partita da lì. Con un’altra lei.
E’ tutto a posto.
Clic, pubblica.
Silvia Volpi è l’autrice del racconto intitolato “Un’altra lei”. E’ una storia tutta di fantasia